La frase preferita l’ha pronunciata uno dei rifugiati, un ragazzo: “Non sono pericoloso, sono in pericolo”.
Bono, leader degli U2
Come riportato da numerose riviste, la migrazione è un fenomeno caratterizzato da una serie di fattori che mettono a rischio la vita dell’individuo. Molti dei migranti scappano da situazioni di povertà, violenza e guerra e si affidano alla speranza che il “viaggio oltre il mare”, alquanto costoso in termini economici, di sopravvivenza e di salute mentale, possa dare loro un futuro migliore.
Ciò che è in gioco? La propria vita.
Dalla partenza all’arrivo, il rischio più grande non è solo di non riuscire ad integrarsi nel Paese ospitante, ma di non sopravvivere alle violenze e agli inganni a cui vengono sottoposti. Violenza, maltrattamento, sfruttamento sessuale, ricatti e torture sono infatti solo alcuni dei fattori traumatici dei nostri “Fragili Viaggiatori”. Gli immigrati devono anche fare i conti un intenso stress transculturale: una nuova realtà distante dal paese d’origine in termini geografici e culturali, il passaggio da ambienti rurali alle metropoli, la perdita del proprio stato sociale, la discriminazione e le separazioni dai propri cari. Sebbene la vita dei migranti sia ricca di traumi ed eventi predisponenti psicopatologie e i loro irregolari e transitori ingressi renda difficile fare delle stime attendibili circa i disturbi psichici, della loro salute mentale se ne parla ancora poco. L’attenzione è spesso rivolta alla salute fisica come ad esempio alle malattie infettive, anziché alla sofferenza psichica.
L’Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti e per il contrasto delle malattie della Povertà (INMP) ha stimato che circa il 32% dei residenti stranieri presenta una cattiva salute mentale. Studi effettuati su pazienti migranti visitati presso ambulatori di medicina di base specifici hanno rilevato un importante quota di disturbi psicologici come: depressione (46,1 %), ansia (39,6 %), sindromi da somatizzazione (25,6 %) e disturbo da stress post-traumatico (10,2 %).
La componente economica sembra essere un fattore alquanto influente per la salute mentale: essa sembra predisporre gli immigrati a “disturbi dell’adattamento e reazioni a stress gravi” (40,8 %) e a disturbi dell’umore (12 %). Inoltre, una vasta letteratura scientifica ha rilevato un aumento dell’incidenza di disturbi mentali soprattutto nei migranti di prima generazione e nelle donne. Nonostante l’Europa negli ultimi anni stia registrando un crescente flusso migratorio, soprattutto da paesi con medio e basso reddito, sono ancora tante le difficoltà nell’accoglienza e nel supporto dei migrati soprattutto a livello psicologico. Infatti, Francesco Caputo, psicoterapeuta e coordinatore dei servizi psicologici della Ong Mediterranea, racconta: “Il nostro lavoro è quello di assisterli prima dello sbarco. Già in quei frangenti è possibile individuare i segni di disagio mentale: le donne sono per la maggior parte incinta e sotto shock, mentre gli uomini mostrano segni di torture e violenze”, ma “nei centri di prima accoglienza e in quelli specializzati, a cui diamo in custodia i migranti, non riescono a gestire tutte le patologie, e si verifica un sovraccarico per gli istituti sparsi per il Paese”. Tale situazione di sovraccarico permette purtroppo di agire principalmente su problematiche fisiche e di individuare sofferenze psichiche particolarmente evidenti come le disabilità, lasciando, invece, in secondo piano molti disagi emotivi. Le barriere sociali, linguistiche e culturali sono i limiti più grandi sia per la sanità che per gli immigrati. Per la sanità diventa difficile individuare e diagnosticare i disturbi mentali per tempo; per gli immigrati diventa difficoltoso accedere ai servizi a loro dedicati. Infatti, nonostante la presenza di un Sistema di accoglienza e integrazione, la fruizione di servizi di primo livello e la possibilità di richiedere protezione internazionale (l’accoglienza materiale, l’assistenza sanitaria, l’assistenza sociale e psicologica, la mediazione linguistico-culturale, i corsi di lingua italiana, e i servizi di orientamento legale e al territorio) molti di loro non riescono a presentarsi dinanzi alle commissioni territoriali per ufficializzare la richiesta d’asilo e ad accedere a visite mediche di primo livello.
Laura Arduini, responsabile dell’Area Salute della Casa della Carità di Milano, uno dei principali centri di accoglienza di migranti con forme di psicosi, chiarisce: «Rimangono in un limbo proprio perché senza assistenza legale e mediatori culturali non riescono a spiegare la loro storia. L’unico modo per arrivare nei centri specializzati è richiedere un supporto psicologico, ma anche in quel caso devono comparire davanti al questore e sostenere un colloquio, e difficilmente accade». Nel suo discorso Laura Arduini riporta un esempio che testimonia quanto il mancato approdo ai servizi psichiatrici (Spdc) nella comunità può causare il peggioramento dei disturbi e il frequente ricorso ai servizi psichiatrici d’urgenza: Faduma è una ragazza di 25 anni, provenite dalla Somalia, vittima di abusi sessuali, che “dopo essere stata in un centro di prima accoglienza, come prevede l’iter, è stata mandata da noi. Era impossibile stargli vicino: urlava, mordeva e aveva degli improvvisi attacchi epilettici. Abbiamo poi scoperto che era incinta di tre mesi, lo stesso arco di tempo che era passato dalla violenza subita». Purtroppo molte situazioni di questo genere passano in osservato finché non esplodono in forme psicotiche, come nel caso di Faduma, ed espongono la persona sofferente ad un trattamento con regime TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio), a interventi coercitivi rischiosi e traumatizzanti, a maggiori drop-out (la presa in carico termina prima che la cura sia conclusa), e ad ulteriori ricorsi ai servizi sanitari, un circolo vizioso.
La dottoressa Arduini rammenta un altro grave problema organizzativo legato alla salute mentale, affermando che: «Sia per la presa in cura sia per la dotazione dei farmaci i migranti devono avere il permesso di soggiorno, cosa alquanto rara. E così sono migliaia i profughi che rimangono invisibili e impossibilitati ad accedere ai Centri Psico Sociali territoriali e alle cure dei medici di base». In altre parole, in questo sistema organizzativo i migranti vengono deumanizzati, restano estranei per la società e diventano fantasmi per la legge.
I “Fragili Viaggiatori” avrebbero bisogno di un Paese ospitante che si prenda cura di loro mediante un sistema organizzativo che comprenda:
-l’attuazione di un intervento multidisciplinare precoce, in cui venga riconosciuta e curata la sofferenza psicologica della singola persona;
- la messa in atto di strategie che prevengano una “ritraumatizzazione secondaria”;
- la presenza di un’equipe multidisciplinare e transculturale specificatamente formata per la specifica utenza (es. le vittime di violenza o tratta);
- la ricalibrazione di un progetto che intervenga a 360 gradi sulla vita dell’immigrante e gli permetta di comprendere la lingua e di inserirsi nella società come parte attiva e funzionale e consapevole dei diritti e dei doveri che ha;
- un’assistenza continua e presente che non conti solo sulla presenza di farmaci.
Non dimentichiamoci che ognuno di noi ha “il diritto di cercare un posto al sicuro in cui vivere”: se temiamo di essere maltrattati nel nostro Paese, abbiamo il diritto di spostarci per cercare un posto sicuro in cui vivere (Dichiarazione Universale dei Diritti Umani).
Fonti
Articolo a cura della dott.ssa Vanessa Silvestri
laureata in Psicologia Clinica e della Salute
vanessa.silvestri.vs@gmail.com
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